Le prospettive della comunicazione finanziaria
in Italia
Nonostante una governance famigliare ancora
lontana dalle vere public company, la comunicazione finanziaria in
Italia si posiziona su un buon livello, riconosciuto anche all’estero.
Eccellere ne parla con Furio Garbagnati, presidente Assorel e CEO
di Weber Shandwick, azienda leader nelle RP.
di Enrico Ratto
Il migliore sistema di controllo sul funzionamento di un mercato, molto
probabilmente, è guardare alla capacità di tessere relazioni con altri
mercati. Come dire: in casa propria i successi fittizi di un’impresa
possono anche essere confusi con quelli reali, ogni standard può essere
spostato a piacimento. Ma quando ci si confronta con mercati esteri,
allora cambia molto.
E la finanza è uno degli aspetti che meglio individua questo continuo
relazionarsi con paesi stranieri e mercati oltre confine.
All’interno dei meccanismi finanziari, un ruolo importante è giocato
dalla comunicazione: ovvero, come costruire una buona relazione con gli
investitori istituzionali, i privati e le banche d’affari.
Furio Garbagnati, presidente di
Assorel
(Associazione Italiana delle Agenzie di RP) e Ceo di
Weber Shandwick,
azienda leader nelle relazioni pubbliche che fa capo ad IPG Interpublic
(quotato al NYSE) ha dedicato la vita professionale alla comunicazione
finanziaria, e sembra essere ottimista sugli standard italiani del
settore.
Furio Garbagnati
Presidente di Assorel e
CEO di Weber Shandwick |
Dott. Garbagnati, quanto si investe in Italia in comunicazione
finanziaria?
Gli investimenti effettivi nessuno li conosce. I dati che abbiamo fanno
riferimento ai fee professionali destinati alle agenzie, il che taglia fuori
tutto ciò che si spende all’interno dell’azienda e in altri ambiti. Oggi in
Italia vengono spesi circa 20 milioni di euro l’anno. Questa quota è
rilevante, ma molto inferiore agli standard anglosassoni: in Inghilterra si
spende circa 14 volte di più.
E i risultati di questi investimenti quali sono?
Negli ultimi 15 anni si sono fatti grandi passi avanti. In seguito alle
privatizzazioni e al via libera alla quotazione di un grande numero di
imprese, la comunicazione finanziaria è diventata di fatto una delle
componenti della governance. Forse, in Italia, quando si parla di
comunicazione finanziaria si intende ancora il legame tra l’azienda e la
stampa economica. Al contrario, per comunicazione finanziaria si devono
intendere i rapporti con gli azionisti, sia istituzionali sia retail, ai
quali si parla sempre più spesso attraverso l’utilizzo di strumenti
innovativi.
Il modello di governance tipicamente italiano, l’azienda familiare per
intenderci, ha rallentato lo sviluppo di una buona comunicazione
finanziaria?
Sicuramente la comunicazione finanziaria nasce nel mondo anglosassone
perché è lì che nascono le prime public company. Quando la governance è in
mano al management, che deve giustificare ogni anno i risultati di fronte
agli azionisti, allora è più facile che si comunichi meglio e in maniera più
trasparente. In Italia, dove il controllo familiare sull’impresa è più
solido, la comunicazione finanziaria è stata bloccata. Oggi, con tutte le
leggi più recenti, la tipologia di proprietà influisce molto poco sul tipo
di comunicazione. Resta un fatto: in Italia vi è maggiore comunicazione
verso gli investitori istituzionali rispetto agli investitori privati. Il
retail, comunque, è un segmento molto importante, è molto emotivo ed è in
grado di influenzare maggiormente il mercato nel breve periodo. Oggi in
Italia ci sono sei milioni di azionisti retail, che non devono essere
sottovalutati.
Quale è il rapporto tra ufficio stampa e investor relator?
Le due figure sono fortemente distinte e complementari. Quando nacque in
Italia l’investor relator, la sua posizione aveva grandi ambiguità: spesso
capitava che delle relazioni con gli investitori si occupasse il direttore
finanziario, o il responsabile comunicazione. Oggi si lavora su due piani
molto distinti ma necessariamente in sinergia. In sostanza non cambia il
messaggio, cambia il mezzo e talvolta il linguaggio con cui viene diffuso.
E il messaggio cambia se cambiano i mercati?
Oggi non si potrebbe comunicare in modo diverso su due mercati diversi.
Per quanto riguarda i dati finanziari, intendo. Le notizie vengono diffuse
senza tener conto dei confini geografici, non avrebbe senso avere
comunicazioni differenti.
Nel mercato italiano, e nelle relazioni con il sistema bancario,
quanto conta la comunicazione di dati quantitativi (bilanci, per esempio) e
quanto quella dei dati qualitativi (prospettive del management)?
Una mia opinione è che oggi, in Italia, il credito viene erogato ancora
troppo spesso sulla base di un’analisi di bilancio, se non proprio su
garanzie concrete e patrimoniali. Il sistema bancario giudica un’azienda dai
suoi bilanci, questo vale soprattutto per le PMI, e non dalle sue
prospettive. Giudica gli asset in essere e non i business plan. Ciò causa
un’arretratezza del nostro sistema.
Infine: gli standard. Ha parlato di una comunicazione comune su
mercati differenti. Ma gli standard individuati funzionano? I parametri su
cui fondare una buona relazione con gli investitori di mercati diversi sono
efficaci?
Sicuramente oggi siamo vicini ad una buona standardizzazione, anche
perché le regole dei mercati finanziari sono sempre più simili. Un tempo
c’era la “quotazione di prestigio”, in mercati dove era agevolata la
quotazione in borsa, come gli USA e la borsa di NY. Oggi sono state messe a
punto leggi che hanno burocratizzato molto il sistema ed è stato aumentato
il controllo, per cui molte aziende hanno preferito rinunciare.
30-Giu-2007
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