Il brand: un vero e proprio “individuo”
protagonista del nostro tempo
Mirko Nesurini, esperto e consulente nella creazione, sviluppo e
gestione dei brand ed autore dell'innovativo volume “Good morning Mr.Brand”,
dialoga con Eccellere su psicologia, vita, morte e rigenerazione dei marchi,
sul loro valore, tangibile e intangibile, e sulla loro capacità di
affrontare i nuovi mercati e le nuove sfide.
di Elisa Scarcella
Mirko Nesurini, Amministratore Delegato di GDS |
Il brand, come un essere umano, è in grado di sopravvivere e distinguersi
in base alla reputazione che ha saputo costruirsi e, come un normale
individuo, ha bisogno di conoscersi, di identificare il proprio carattere,
per definire i processi e le strategie dell'impresa che rappresenta ed
affrontare le sfide dei nuovi mercati. E' questa, in sintesi, l'interessante
tesi sostenuta da Mirko Nesurini, amministratore delegato di GDS,
pubblicitario e consulente nella creazione e gestione del brand, nel volume
“Good morning Mr. Brand”, edito da Hoepli, che ha suscitato grande interesse
tra i professionisti del marketing per l'innovativa reinterpretazione della
marca nell'ottica della psicologia cognitivo-comportamentale. Un approccio
che permette di identificare il carattere, la storia, la reputazione, il
valore (tangibile ed intangibile) di una marca, e osservarne il ruolo e
l'evoluzione nei nuovi mercati.
Desideriamo approfittare della sua esperienza nel settore, e
chiederle, innanzitutto, di dare ai nostri lettori una breve definizione di
brand, anche in rapporto al trademark.
Il trademark rappresenta un prodotto, per questo è definito marchio
commerciale; possiede valore quando è in grado di superare tre classiche
prove: farsi riconoscere, farsi acquistare, farsi accettare dopo l’acquisto.
Il Brand è custode del valore complessivo dell’azienda. Il valore
dell’impresa si esprime tramite i suoi comportamenti, non solo sul piano
commerciale. Un brand inattivo custodisce il proprio valore. Facendo leva
sui valori “dormienti” sono stati rigenerati diversi brand antichi. La
differenza tra le due entità risiede dunque nella prospettiva di utilizzo:
il trademark rappresenta un prodotto, il brand presidia un’idea d’impresa.
Nel suo ultimo libro “Good Morning Mr. Brand”, lei parla di
“personalità del brand”. Può spiegarci cosa intende con questa definizione e
quali sono le caratteristiche peculiari da lei individuate, che concorrono
alla definizione del “carattere del brand” ed alla attribuzione del suo
valore?
Il
link tra psicologia e branding scaturisce dall’esigenza del brand di
conoscersi. Il brand “cosciente” è in grado di affrontare i nuovi mercati e
le nuove sfide. Il metodo di elaborazione delle informazioni (coscienza)
determina la tipologia di organizzazione della conoscenza, e questa si
esprime nella personalità del brand.
L’elemento affascinante che si deduce dalla lettura di questo libro è
l’essere riusciti a creare un metodo semplice di codifica della
“personalità” dei brand. La maggior conoscenza consente di prevedere i
comportamenti. Vengono così risolte una serie consistente di sfide in carico
al brand. Il brand che gestisce la propria organizzazione della conoscenza è
in grado di superare gli stati di crisi e di individuare i “punti chiave”
della relazione con i propri interlocutori.
In particolare, quanto è determinante, in questo contesto, la
dimensione etica?
Amiamo unire etica e responsabilità sociale per sviluppare un concetto di
coerenza dell’agire del brand. Il brand è concepito e organizzato per la
continuità, perciò etica e responsabilità sociale devono essere un modello.
Le imprese guardano ai fatti, coscienti che un comportamento etico e un
occhio di riguardo ai problemi della società e dell’ambiente producono
effetti positivi sul valore del brand. I brand infatti vengono ricordati in
base alla loro reputazione, che è qualcosa di ingestibile come processo in
assenza di una dimensione etica condivisa e da un forte modello di
responsabilità sociale. I brand che possiedono una ottima reputazione
portano avanti progetti, concludono accordi, fanno business impossibili da
svolgere in assenza di quel buon clima positivo e di fiducia che si presenta
al loro cospetto.
Qual è invece il ruolo del web e dei nuovi media nell'assicurare non
solo il successo ma la sopravvivenza stessa di un brand?
Internet, i blog e tutti gli strumenti di “indagine personale” hanno reso
trasparenti i brand che hanno perso buona parte del loro fascino. Il fascino
di un brand è dato dalla sua bellezza e dalla sicurezza di piacere, fattori
vincenti se aggiunti alla raffinatezza nella presentazione esteriore e nella
capacità di muovere fantasia, evocare mistero, attrarre e creare barriere,
per poi invitare dolcemente al consumo. Per fare tutto ciò il brand ha
bisogno di poter guardare negli occhi l'uomo che vuol conquistare,
facendogli capire che lo adora ma, nello stesso tempo, facendosi desiderare.
Troppa conoscenza inibisce il rituale. E allora le rispondo: sì, Internet è
“pericoloso” per la sopravvivenza dei brand.
In collaborazione con l'Università Bocconi, lei ha promosso una
ricerca, tuttora in corso, sui cosiddetti “ex brand”. Può illustrarci i
punti salienti, gli obiettivi e le metodologie seguite da questo lavoro?
Questa iniziativa nasce soprattutto grazie all’ottima intesa con la prof.
Eleonora Cattaneo, che da subito ha creduto al potenziale del progetto.
Assieme ci siamo dati un obiettivo chiaro: sviluppare una metodologia per
valutare le potenzialità di rilancio di un brand “dormiente”: ricerca
legale, ricerca di brand “liberi”, interviste ad esperti e sviluppo di una
“score card” per misurare la potenzialità, test su alcuni brand. Abbiamo poi
costruito un notevole data-base di brand dormienti, diventato oggetto di una
start-up denominata Ex Brand Institute, EBI, che offre servizi di consulenza
basandosi sulla conoscenza del mercato dei brand dormienti.
Può spiegarci con quali metodologie si arriva a dare una quotazione
economica di una risorsa intangibile come un ex brand?
Il valore economico è dato da una serie di parametri quali brand
awareness, associazioni, rilevanza, estensibilità e naturalmente valore
economico prospettico (stima cash flows futuri). Le diverse componenti vanno
pesate e valutate anche in funzione del prodotto, dei mercati di riferimento
e così via. L’obiettivo di Ex Brand Institute è stato quello di costruire
una matrice di riferimento per la valutazione dei GAP tra un “brand ideale”
e uno sleeping brand attraverso indagini sui consumatori. Il GAP rilevato
determina il valore dello sleeping brand rispetto ai canoni classici – e
conosciuti - di valutazione di un brand attivo.
Come si procede nel definire le opportunità di mercato di un ex brand
e nel suo riposizionamento? E qual è la componente di rischio connessa a
questo processo?
Le opportunità di mercato sono le stesse di qualsiasi brand ma la
possibilità di sfruttare awareness e immagine positiva permettono di
accelerare il lancio e penetrare più velocemente un nuovo mercato. C’è poi
la componente “rassicurazione” che in periodi di turbolenza di mercato e
incertezza dei consumatori può risultare vincente rispetto al lancio di un
brand nuovo. In alcuni casi, è anche vincente la componente storica perché
permette di sottolineare l’autenticità, elemento molto ricercato
attualmente. Inoltre, è fondamentale la possibilità di usare il brand per
entrare in altre categorie, cosa che con un brand già conosciuto e
apprezzato dovrebbe essere più agevole.
Pensando ad es. ai casi Parmalat e Mattel, viene da chiedersi come sia
possibile per un brand sopravvivere ad una grande crisi, rimanere sul
mercato e mantenere la fiducia del pubblico.
Nei due casi citati, ciò è stato possibile perché i gestori hanno avuto
il coraggio di reagire e perché era possibile reagire. Per Enron ogni
iniziativa era superflua e quindi ritenuta un accanimento terapeutico. Il
brand è deceduto. In altri casi per sopravvivere è necessario cambiare
pelle. Alcuni esempi sono riprodotti nel libretto “Logo RIP a commemoration
of dead logotypes” edito da Bis Publisher nel 2003.
Spesso, parlando dei mercati asiatici e in particolare di Cina e
India, si sottolinea l'elemento della contraffazione. Quali pensa siano le
caratteristiche peculiari e le prospettive di questi scenari in relazione
allo sviluppo dei grandi brand internazionali?
La scorrettezza dei cinesi non è diversa da quella degli editori
americani che all’inizio del secolo scorso mettevano in distribuzione libri
di scrittori inglesi senza pagarne i diritti di autore. Il malcostume si è
risolto quando il valore della proprietà intellettuale ha superato i
benefici prodotti dalla contraffazione. Non voglio tuttavia liquidare la
questione con una deroga sul tempo. Perciò, invece di parlare del problema
della contraffazione preferisco consigliare ai brand asiatici di curarsi
della loro reputazione. La buona reputazione si genera agendo in maniera
etica e responsabile, e questo vale in Cina come in Europa. Il compito dei
brand internazionali è quello di comunicare ai cinesi che quando avranno
anche loro brevetti e brand che genereranno valore sul PIL dovranno
tutelarli, meglio di quanto siamo stati in grandi di fare noi.
5-Gen-2008
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