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La formazione manageriale come leva per l’internazionalizzazione delle PMI

Far evolvere le PMI sui mercati internazionali uscendo da logiche improvvisate che ne minano la crescita: il ruolo della formazione manageriale nella visione di Raffaele Crispino, partner e amministratore unico di Project & Planning.

di Tiziana Campanella

Internazionalizzazione, strategie di competizione globale sono termini utilizzati sempre più spesso nell’universo imprenditoriale italiano che, tuttavia, evidenzia l’esigenza di adeguamento delle competenze per fare fronte efficacemente alle sfide della crescita sui mercati internazionali. Con Raffaele Crispino, partner e amministratore unico di Project & Planning Srl, esperto in internazionalizzazione di impresa, parliamo di come la formazione manageriale possa favorire il processo di crescita delle piccole e medie imprese italiane sui mercati esteri.

Qual è a suo giudizio lo scenario per inquadrare correttamente il tema della formazione manageriale per l’internazionalizzazione delle piccole e medie imprese?


Raffaele Crispino,
partner e amministratore unico di
Project & Planning Srl

Occorre partire da una considerazione preliminare che mette in evidenza il ritardo o l’approssimazione con cui si approccia il tema dell’internazionalizzazione.
Il processo di internazionalizzazione delle PMI è senza dubbio ancora non adeguatamente studiato. Esso evidenzia con forza come, da un lato, non sia sempre rispondente a una visione incrementale, che va dall’esportazione alla de-localizzazione, fino all’impresa internazionale. Anzi, presenta dei “salti” e dei “ritorni sui propri passi”. Inoltre, esso è influenzato pesantemente dalle variegate condizioni del sistema competitivo specifico.
Nelle PMI prevale, in sostanza, un atteggiamento tattico/opportunistico piuttosto che strategico alla internazionalizzazione. I dati dell’ultimo quinquennio evidenziano una perdita delle quote dell’export del made in Italy, dovuta soprattutto all’intensificarsi della concorrenza, allo sbilanciamento della specializzazione produttiva verso settori esposti alla concorrenza di paesi con bassi costi di produzione, alla limitata capacità di innovazione ed internazionalizzazione e alla ridotta dimensione delle imprese.

Una rappresentazione a tinte fosche… Ma quali azioni occorre mettere in campo per favorire una inversione di tendenza?

La formazione manageriale costituisce senza ombra di dubbio, a mio parere, una delle leve prioritarie per favorire il processo di internazionalizzazione delle PMI. Ma per contribuire efficacemente al recupero del gap deve in primo luogo partire dalla puntuale conoscenza delle variabili critiche del sistema imprenditoriale. Mi riferisco innanzitutto alla centralità dell’imprenditore, elemento di forza e di debolezza della specifica realtà organizzativa, spesso “attivatore” di processi di innovazione ma talvolta “egemonizzatore” dei processi di apprendimento organizzativo. Penso ancora alla ridotta dimensione manageriale, e, inoltre, alla rilevanza delle reti di relazioni interpersonali e interorganizzative in cui opera la singola impresa.
In secondo luogo, ma non per ordine di importanza, è fondamentale coniugare la dimensione “micro” con quella di “sistema”.

Quale tipo di formazione, secondo lei, è più congeniale al raggiungimento di questi obiettivi?

Una distinzione va posta tra la formazione rivolta all’imprenditore e quella destinata al management.
Per l’imprenditore la formazione deve puntare tanto a sviluppare la sensibilità e l’intuizione strategica rispetto alla internazionalizzazione, quanto a favorire processi imitativi. Le modalità operative, conseguentemente, non devono fondarsi sull’aula tradizionale, ma devono prevedere modalità di scambio di esperienze basate su workshop tematici, visite e missioni aziendali .
Al management l’attività formativa deve, invece, consentire l’accrescimento delle competenze tecniche per tradurre operativamente la vision internazionale dell’azienda e delle competenze relazionali, legate alla capacità di gestire le relazioni intra-aziendali e con l’ambiente di business. Pertanto deve essere focalizzata su tecniche, strumenti e metodologie che supportino l’approfondimento specialistico. In questo caso le modalità operative più funzionali sono quelle incentrate sul learning by doing, sulle comunità di pratiche, dando maggiore peso all’on the job e all’affiancamento consulenziale rispetto a momenti di aula tradizionale, ridotti e, comunque, concentrati nel tempo.

Quali sono le condizioni critiche che permettono al processo di andare a buon fine?

Il circolo virtuoso tra competenze per l’internazionalizzazione e crescita sui mercati esteri s’innesca in presenza di una “soglia minima” dimensionale e culturale. Inoltre i processi di apprendimento riferiti all’internazionalizzazione nelle PMI spesso non avvengono in isolamento ma sono il frutto dell’interazione tra diversi attori: imprese, banche, soggetti istituzionali, università e agenzia formative.
Occorre favorire processi di aggregazione formali e informali tra PMI, rafforzando la “visione di sistema” e supportando le reti di PMI. Quanto più i modi e i tempi dello sviluppo e dell’apprendimento organizzativo sono egemonizzati dall’imprenditore tanto più cresce il rischio di bloccare il processo di internazionalizzazione.

In conclusione, quali sono allora gli obiettivi della formazione manageriale su questo tema?

La formazione deve intervenire per consentire all’impresa o al network di imprese di tradurre la conoscenza tacita e individuale legata all’imprenditore di successo, in apprendimento organizzativo basato sull’abitudine all’utilizzo di strumenti di gestione della conoscenza fondata sulla gestione operativa e non più come deriva della visione imprenditoriale. Tuttavia, per migliorare l’impatto dell’azione formativa è auspicabile un maggiore impulso alle attività di analisi empirica volte a fare emergere i modelli di governance delle PMI impegnate in processi di internazionalizzazione, creando anche le condizioni per favorire una effettiva learning region.

8-Giu-2008

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