Formazione "made in Italy". Gli impegni di spesa hanno raggiunto una
cifra considerevole, di circa 4,2 miliardi di euro. Ma solo 2,3 mld. sono
stati spesi effettivamente.
di
Rosvanna Lattarulo
Buone notizie sul fronte della formazione "made in Italy". Gli impegni di
spesa hanno raggiunto una cifra considerevole, di circa 4,2 miliardi di euro.
Un trend, quello dell’aumento dell’attenzione per la formazione
professionale che è certamente positivo e in crescita rispetto al passato.
Se, però, confrontiamo l’impegnato con il budget effettivamente speso per
tali attività, ci accorgiamo di alcune discrepanze. Dei predetti 4,2 mld di
euro, solo 2,3 sono stati spesi effettivamente.
Ad essere sotto accusa sono principalmente gli enti pubblici e la loro
capacità di spesa e progettuale, gli enti privati, le Regioni. E’ necessario
adeguarsi presto alla richiesta di nuove capacità, competenze gestionali e
di una progettazione più adeguata.
Un’altra zona d’ombra è rappresentata dalla formazione finanziata dal
Fondo Sociale Europeo. Se da un lato, al FSE vanno riconosciuti alcuni
risultati importanti e certamente positivi (3,8 milioni di persone
coinvolte negli ultimi cinque anni e 179 mila interventi),
dall’altro, si inizia a temere per il calo di risorse che l’Europa metterà a
disposizione per il nostro paese. I contraccolpi negativi di questa
riduzione si attendono già dal prossimo piano, senza dubbio più avaro per
l'ingresso nella Ue di nuovi partner.
Un dato che non può sfuggire agli analisti più attenti è quello realtivo
agli investimenti effetuati per la formazione con fondi FSE: dei 16
miliardi disponibili, alla fine del 2004 ne sono stati spesi soltanto
6,7 miliardi (42,4%), anche in questo caso a causa della scarsa capacità
progettuale e strategica del sistema-Paese.
Ad allarmare è anche la formazione continua, quella che le imprese
indirizzano ai propri dipendenti. Anche in questo caso, pur non mancando le
risorse economiche (il contributo dello 0,30 alimenta una massiccia
dotazione di risorse), nella realtà poche aziende vi ricorrano, a causa di
vincoli ed ostacoli, che vanno affrontati rapidamente.
L'allarme rosso è sulla riduzione della propensione formativa soprattutto
delle piccole imprese. Nel 2004, secondo un recente Rapporto Isfol, il calo
appare generalizzato: solo un quinto delle imprese e dei dipendenti
(20%) è stato coinvolto, l'anno precedente la quota era del 25%.
Il divario è netto tra le grandi imprese, che fanno più formazione e la
finalizzano alle scelte strategiche, e le piccole e medie imprese, vera
ossatura del sistema produttivo italiano, che appaiono in ritirata. Il calo
è distribuito a livello nazionale, anche se ancora una volta il Sud è
fanalino di coda (solo il 17% delle imprese fa formazione continua).
Perché questi fondi paritetici non riescono a decollare e a fungere da
volano allo sviluppo? Alla mancata creazione di un efficace sistema di "lifelong
learning" (formazione permanente) concorrono ritardi nella diffusione
dell'e-learning, la professionalità dei formatori e dell'offerta, l'attività
di orientamento e la presenza di servizi. Ma soprattutto una diversa
dinamicità della domanda di formazione da parte delle imprese