Coca Cola HBC Italia. Una “pipeline” verso il
successo.
Terza classificata nel 2006 come migliore
azienda italiana in cui lavorare, Coca Cola HBC crede nelle persone, e
adotta un metodo sempre misurabile per attrarre talenti. Eccellere ne
parla con Roberto Farina, Direttore Risorse Umane di Coca Cola HBC
Italia.
di Enrico Ratto
Roberto Farina
Direttore Risorse Umane di
Coca Cola HBC Italia
|
Nel 2006 Coca Cola HBC è la terza realtà italiana per le migliori
condizioni di lavoro, le opportunità di carriera, gli stimoli e la
retribuzione dei propri dipendenti (indagine
Great Place to Work).
Ma nell’anno del successo, l’azienda cambia, o integra, la propra strategia
di Gestione Risorse Umane con un modello definito “Leadership Pipeline”.
Roberto Farina, Direttore Risorse Umane dell’azienda- in Coca Cola Italia
dal 1997 e in Coca Cola HBC dal 2004 – ci spiega le ragioni del successo e
ci racconta come una multinazionale attrae e trattiene i migliori talenti.
Dott. Farina, che cosa è Coca Cola HBC?
Coca Cola HBC è la consociata italiana di una multinazionale greca,
quotata allo stock exchange di Atene e attiva in 28 paesi nel mondo con 45
mila dipendenti. In Italia nasce a metà degli anni ’90 dalla fusione di
piccole realtà dell’imbottigliamento e della distribuzione di bevande
gassate.
Nel 2000 l’azienda viene acquisita da HBC. Oggi in Italia contiamo 2500
dipendenti e operiamo in stabilimenti spalmati sul territorio nazionale, in
tutto il nord e al centro-sud fino all’Abruzzo. Al sud esistono inoltre due
stabilimenti indipendenti dedicati all’imbottigliamento. Coca Cola HBC
Italia genera il 70% del business Coca Cola in Italia.
Quali sono i vostri pilastri?
Fino ad un anno fa le bevante gassate, le alcol free beverage. Un anno fa
abbiamo acquisito alcuni produttori di acque minerali, con i rispettivi
marchi, e questo ha coinciso con l’ingresso in un business mai percorso
prima. La nostra mission è dissetare le persone, arrivando nei maggiori
punti vendita. Imbottigliamo in diverse tipologie di pack, dal vetro alle
lattine, allo sfuso (la spina). Negli ultimi anni abbiamo assistito ad una
grande crescita del consumo immediato delle bevande, tramite la collocazione
di migliaia di frigo-espositori direttamente nei punti vendita dei nostri
prodotti.
Quali sono le ragioni di un piazzamento così importante secondo
l’indagine di "Great Place to Work"? E come avete fatto, visto che siete
partiti dall’integrazione di diverse, piccole culture particolari?
Effettivamente il fatto di unire tra loro aziende locali ha creato una
situazione di forte eterogeneità per quanto riguardava il management e la
gestione del gruppo. Per questo, per quanto riguarda le Risorse Umane, dal
2003 abbiamo iniziato a lavorare su tre livelli ben precisi: mercato,
persone e cultura.
Come è cambiato il vostro approccio al mercato?
Oggi abbiamo una forza vendita molto più aggressiva, che ci permette di
arrivare alla vendita al dettaglio. Da 300 venditori siamo passati a 1200,
che ogni giorno visitano circa 120 mila clienti.
E nelle persone?
Uno dei nostri problemi era un turn over molto elevato, vicino al 16%
all’anno. Acquisivamo molto personale dall’esterno, a seconda delle
necessità, e questo dava scarse prospettive a chi era cresciuto
internamente. C’era un continuo cambiamento di direzione e di leadership.
Nel 2003 abbiamo deciso di investire nello scouting interno. Oggi il nostro
turn over è del 4% e l’abbandono volontario incide per circa il 2%. Oggi su
10 quadri dirigenti, 9 sono cresciuti all’interno dell’azienda.
Infine, la cultura…
Abbiamo sviluppato molto la comunicazione interna: magazine aziendale,
intranet, meeting tra diversi livelli di leadership con cadenza settimanale.
Ogni persona incontra il proprio capo, in maniera programmata, almeno una
volta la settimana. Infine abbiamo sviluppato la comunicazione tra le
diverse funzioni e tra i diversi reparti.
Quali sono i fattori di soddisfazione per chi lavora in Coca Cola HBC
Italia?
Ne individerei tre: rapporto con il proprio capo, opportunità di carriera
e comunicazione. Dal 2005 abbiamo investito molto nella formazione, con
sistemi quasi scolastici di apprendimento e verifica dei risultati. Oggi
abbiamo 21 persone dedicate al training, alla formazione in aula, al
coaching.
Per tutti i livelli di leadership?
Sì, dall’operaio al manager, fino al top manager. Formiamo le persone e
abbiamo inserito una serie di esami periodici. Misuriamo prima il sapere e
poi il saper fare, attraverso l’applicazione pratica delle nozioni.
Che ruolo gioca la retribuzione in questo sistema?
Abbiamo applicato un criterio più trasparente nella premiazione dei
risultati e nelle politiche di merito. Abbiamo aumentato il variabile
rispetto al fisso, la cui proporzione oggi può arrivare al 40% del fisso. Si
è creato un sistema molto meritocratico.
Con questo metodo avete raggiunto ottimi risultati. Poi avete cambiato
strada. Che cosa è successo?
Abbiamo scoperto un metodo ideato da Stephen Drotter, ex manager di
General Electric, chiamato “Leadership Pipeline Model”. Un meccanismo che si
basa su due principi: nel business la forza lavoro è essenziale ed è
essenziale che ogni persona sia portata a performare al 100%. Il secondo
principio è la struttura a livelli del percorso professionale: leadership
individuale, capo di altri, manager di altri manager, direttore funzionale,
capo di un business, capo di più paesi, CEO.
Secondo questa teoria, ogni persona può arrivare al livello di CEO?
Non necessariamente. Bisogna fare in modo, come già detto, che la persona
performi al 100% nella propria posizione. A questo punto entra in gioco un
altro fattore fondamentale: saper gestire il tempo, ovvero il passaggio da
un livello ad un altro. Questo è un momento chiave: ci sono ottimi “manager
di altri manager” che non darebbero il 100% nel ruolo di “direttore
funzionale”. Bisogna capire chi può salire e chi può invece espandere il
proprio ruolo sullo stesso livello di leadership. Per esempio, da “manager
di altri manager” in Italia, allo stesso ruolo su scala europea. Bisogna
fare in modo che la promozione non abbassi le performance.
Quali sono normalmente le cause di una performance inferiore rispetto
alle attese?
Normalmente i fallimenti sono imputabili per il 75% al capo e per il 25%
al dipendente. Il capo può non aver definito l’obiettivo, non averlo
comunicato bene, non aver capito in tempo le reali potenzialità del
dipendente. Il dipendente normalmente fallisce su quattro punti: non sa, non
sa fare, non ha attitudine al compito, non è la persona giusta in quel
posto.
Come si interviene?
Se il dipendente non sa, occorre formarlo attraverso un training
dedicato. Se non sa fare, si predispone un programma di coaching pratico. Se
non vi è attitudine, c’è bisogno di un cambiamento radicale della sua
mentalità, gli devono essere spiegate quali sono le regole di quel tale
ruolo. Se non è la persona giusta nel posto giusto, si interviene con uno
spostamento di sede o di settore. Sta comunque nel capo andare a fare questa
analisi e individuare l’esatta causa della mancata performance.
E quali sono invece gli elementi che trattengono una persona in una
realtà come Coca Cola HBC?
Innanzitutto poniamo grandissima attenzione nella selezione. Da una parte
scegliamo, dall’altra veniamo scelti. Oggi si parla molto di employer
branding marketing, il pubblicizzare gli importanti risultati dell’azienda
per attrarre talenti. Inoltre, in seguito ai colloqui e alla prima
selezione, facciamo parlare il candidato con chi opera già dentro l’azienda,
in modo che si renda conto da vicino che i reali risultati non sono solo
parole e, d’altra parte, che capisca se quella è la realtà giusta per lui.
Ma al di là di tutto questo, per ottenere una persona di successo, la
retribuzione è importante, ma bisogna avere nel cassetto grandi progetti.
10-Apr-2007
© 2007 - Eccellere - Business Community
|