Harmont & Blaine: da vent’anni cambiamo con
coerenza
Domenico Menniti, amministratore delegato
di H&B, spiega che il successo del bassotto è stare sempre in mezzo alla
gente. Anche se ultimamente è in atto un profondo riposizionamento del
brand.
di Enrico
Ratto
Domenico Menniti,
Amministratore Delegato di
Harmont & Blaine |
Nel 1987 Harmont & Blaine inizia a produrre guanti in pelle, poi passa
alle cravatte, quindi all’abbigliamento mare fino ad essere riconosciuto
oggi come un marchio per tutte le stagioni. Il segreto del successo è
sapersi adattare e saper superare le crisi, che sembrano rimbalzare ogni
volta di fronte alla tenacia dell’azienda napoletana. L’amministratore
delegato e fondatore, Domenico Menniti, spiega ad Eccellere i passi della
crescita di questa realtà tutta italiana che oggi fattura 45 milioni l’anno
e sta crescendo soprattutto all’estero. Il segreto? “Sapere quando è il
momento di salire in cattedra” spiega Menniti “ma sapere anche quando
bisogna dialogare come se ci conoscessimo da sempre…”
E’ per questo, Signor Menniti, che Harmont & Blaine è il simbolo di
una sfida continua, un’azienda che non si è mai seduta sugli allori? Nemmeno
ora che è un brand riconosciuto e forte nel settore dell’abbigliamento
maschile sembra abbia intenzione di fermarsi…
Siamo nati nel 1988 sotto il nome di PDM srl, tre soci, un’impresa
specializzata nella produzione di guanti in pelle. Siamo nati sotto la legge
44 sull’imprenditoria giovanile, una legge molto criticata ma che ha saputo
dare molto a chi aveva voglia di intraprendere un progetto. Produciamo
guanti in pelle dall’89 al ’93, e in questo periodo succedono le seguenti
cose: prima Guerra del Golfo, assalto all’Achille Lauro, attentati a
Fiumicino. Il nostro principale mercato era quello americano, e agli
americani viene sconsigliato di venire a fare acquisti nell’area del
mediterraneo. Sul fronte interno, scoppia tangentopoli.
Niente male per una start up…
A questo aggiunga il fatto che nell’inverno del ’92 e ’93 si registrano
le temperature più alte. Il fatturato scende del 50% in un anno per tutto il
settore della guanteria, che era composto da un centinaio di aziende. Allora
pensiamo che sia meglio cambiare settore: iniziamo a produrre cravatte di
altissima qualità, nasce la Harmont, a cui aggiungiamo Blaine, nome che da
molti viene giudicato impronunciabile. A questo aggiungiamo il simbolo del
bassotto, che ci rappresenta in quanto cane dalle sembianze non proprio
belle, e quindi molto abile nel trovare altri punti di forza…
Certo. E con le cravatte è andata meglio?
Stava andando tutto bene, finché nel 1994 Armani e Versace, in coro,
pronunciano la seguente frase: la cravatta è morta. Vede, ora ridiamo, ma
negli anni ’90 abbiamo riso meno. Boccheggiavamo. Iniziamo quindi a lavorare
ad una linea di abbigliamento intimo, Papero Giallo, che oggi in pochi
ricordano. Riusciamo a mettere la camicia da notte a Maurizio Costanzo e a
Fiorello, nella prima edizione di Buona Domenica. Questo ci ha consentito di
superare una grande crisi. Peccato che due anni dopo arrivano i telefonini…
Cosa significa?
Che il regalo era “il telefonino”. Papero Giallo, che era il tipico
regalo di Natale, non ha più ragione di esistere: gli italiani regalano
esclusivamente telefonini. Nel 1995 inventiamo così la prima collezione di
boxer da mare dove il colore è il protagonista. Colorati e divertenti, i
nostri boxer da mare sono così. Era l’epoca dei tre colori: grigio, nero e
marrone. I grandi stilisti lavorano solo su questi colori, noi puntiamo sul
colore.
E’ questo il momento in cui iniziate a specializzarvi sul mare?
Esatto. Lavoriamo sui teli di spugna, t-shirt… però avevamo sempre un
prodotto mono-stagionale, che ci consentiva di vendere solo in primavera ed
estate. Pensiamo così alla camicia. Giochiamo sempre sui tessuti, sul
colore. La camicia col bassotto diventa un must.
E’ finita la crisi. Avete trovato il prodotto, ora si inizia a
vendere…
Questo è il momento in cui Harmont & Blaine inizia un percorso virtuoso.
I numeri sono ancora intorno ai 2 milioni e mezzo di fatturato, e ci
avviciniamo al 2001. Arriva la crisi, che questa volta è per gli altri. Dai
2,5 milioni del 2001 arriviamo ai 45 del 2008, con incrementi del 30% l’anno
e punte del 75%. In quei giorni del 2001 apriamo negozi monomarca che
potessero dare sensazione all’offerta Harmont & Blaine. Oggi in Italia
abbiamo 27 punti vendita monomarca, e altri 23 nel mondo. Stiamo aprendo a
Mosca, Bucarest, Kuwait City…
Con quale criterio scegliete di inaugurare un punto vendita?
I punti vendita monomarca non devono per forza fare business, devono fare
brand e dare sensazioni precise al cliente Harmont & Blaine. Abbiamo
iniziato con il punto vendita di Capri, per arrivare a Portofino, Forte dei
Marmi… tutto in stile Harmont & Blaine. Abbiamo poi sviluppato accordi molto
interessanti, primo tra tutti quello con Rinascente. Quando Rinascente ha
scelto la via del rilancio, ci hanno dato 20 metri quadrati nel negozio di
Milano con l’impegno di fatturare 11 mila Euro a metro quadrato. Nel secondo
anno i 20 metri quadrati hanno fatturato 778 mila Euro. Nei primi 6 mesi del
2008 il nostro tasso di crescita è stato del 45% nel negozio Rinascente di
Milano, e oggi ci sono stati proposti 70 metri quadrati. Nel 2009, sulla
scia di questo successo, apriremo il primo corner da Harrods.
Harmont & Blaine ha però consolidato il brand attraverso un abile uso
dei testimonial, forse è una delle poche realtà italiane che è davvero
riuscita ad utilizzare in modo efficace un testimonial…
Anche i testimonial hanno avuto le loro belle avventure. Nel 2006
Cannavaro non è ancora il campione del mondo, ma è uno dei tre juventini che
quasi nessuno vorrebbe ai mondiali: con lui Lippi e Buffon. Noi abbiamo
appena firmato per la nostra campagna. In poco tempo diventa campione del
mondo, pallone d’oro, vince molto con il Real Madrid...
Avete intenzione di proseguire solo con la linea uomo, o ci sono altri
progetti?
Nel 2006 abbiamo stretto un accordo con una piccola azienda napoletana
per la linea bambino: Harmont & Blaine Junior. Era una piccola azienda, e
oggi è tra i primi cinque marchi junior in Italia, fattura 8 milioni di cui
il 5% all’estero. Con loro dovremo potenziare la quota estero.
E per quanto riguarda la linea femminile?
Siamo quasi pronti anche per la licenza della linea donna, ma è un
argomento che dobbiamo affrontare con molto rispetto, così come abbiamo
affrontato la linea bambino. Non vogliamo fare passi solo per aumentare di
qualche euro il fatturato.
Come è posizionato il marchio Harmont & Blaine nel mercato
dell’abbigliamento?
In questo momento ci stiamo riposizionando verso l’alto. In base a questa
strategia lasceremo sul campo italiano cinque milioni di fatturato, ma che
ci permetteranno di vivere più a lungo domani. Purtroppo dobbiamo rinunciare
a quella fetta di mercato più bassa, perché comunque l’italiano medio non
sta affrontando un buon periodo, e quindi crediamo che lo perderemmo
comunque. Dobbiamo andare a prendere quella fascia di mercato che è in
condizione di acquistare un nostro prodotto, ovunque esso sia. E’ per questo
che stiamo crescendo all’estero, nei paesi emergenti. Dobbiamo iniziare ad
essere riconosciuti come “non per tutti”. Il nostro prossimo testimonial
sarà Alessandro Gassman.
Vi aspetta solo la quotazione, insomma, magari con l’obiettivo di
investire all’estero…
Vede, le gare si vincono ai box, non in pista. E noi stiamo appunto
attrezzando i box. Il primo bilancio certificato sarà quello del 2007, il
secondo quello del 2008. Ciò significa che nel primo semestre del 2010
saremo pronti per la quotazione. Questo non significa quotarsi, significa
essere pronti. Personalmente non voglio lasciare nemmeno un euro su un
mercato finanziario così instabile per colpa d’altri. Oggi l’azienda ha un
cash flow che ci permette di fare investimenti a nostro carico con
tranquillità, a fine 2008 apriremo a Istanbul autofinanziandoci. E per
quanto riguarda i fondi, in questo momento non siamo disponibili ad
allargare la società ai fondi d’investimento: avremmo obiettivi diversi,
loro tendono a monetizzare, noi ad allargare gli orizzonti. Dobbiamo ancora
esaurire l’auto propulsione, siamo ancora in grado di proseguire con le
nostre gambe.
Voi pensate di conoscere bene il vostro cliente? Investite in ricerca
in questo senso?
Il nostro panel di riferimento siamo noi stessi, ci siamo auto-nominati.
Questo per una serie di episodi, per cui ci aspettavamo un certo tipo di
risposta e ne sono arrivate altre da altri canali. Personaggi molto elevati,
istituzionali, che ci hanno detto di averci trovato su riviste popolari, non
sul Sole 24 Ore… questo significa che ogni cliente è molto variegato,
composito, complesso. Non bisogna tagliar fuori nessun media in maniera
pregiudiziale, bisogna includere, perché le scelte del nostro cliente sono
poco inquadrabili. Diciamo che il bassotto non sta chiuso nel canile, sta
sempre in mezzo alla gente. Con coerenza.
4-Lug-2008
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