Il London Agreement e il brevetto comunitario
La tutela brevettuale in Europa e la
mancata ratifica da parte dell’Italia del London Agreement. Una
decisione controversa che ha suscitato non poche polemiche. Quali sono
le conseguenze per l'industria italiana?
di
Cristiano Alliney
Come noto, l’Italia ha deciso di non aderire, per il momento,
al London Agreement, il Trattato Internazionale istitutivo del Brevetto
Comunitario. Le ragioni di tale scelta non sono di facile individuazione; in
particolare non è semplice comprendere se la mancata ratifica del Trattato
sia da addebitarsi ai cronici ritardi del nostro paese nell’armonizzazione
del proprio diritto a quello comunitario, o a una vera e propria strategia.
Non sono mancate infatti diverse voci critiche, da parte delle più eminenti
società di consulenza italiane nei confronti dell’attuale testo e della
struttura stessa del trattato e dello stesso Brevetto Comunitario. Sembra
quindi che la scelta sia stata quella di rimanere “alla finestra”, decidendo
di subordinare una futura adesione all’esito che il nuovo strumento
giuridico avrà nella Comunità.
Tale decisione, apparentemente prudente, allontana tuttavia le aziende e i
tribunali italiani da un sistema di regole comuni e condivise.
Nell’Unione Europea, infatti, la tutela brevettuale è stata
a lungo garantita da due tipi di sistemi brevettuali, nessuno dei quali
fondato su uno strumento giuridico valido per l’intera Comunità Europea : i
sistemi brevettuali nazionali ed il sistema brevettuale europeo della
Convenzione sul Brevetto Europeo.
L’idea di un Brevetto Comunitario (esattamente come quella del Marchio
Comunitario) risale agli anni '60 , periodo nel quale si era cominciata a
considerare la possibilità di costituire un sistema brevettuale unitario per
l’intera nascente Comunità Europea , anche se presto apparve evidente che
questo obiettivo velleitario nel breve e medio termine .
Il primo tentativo concreto di dare vita un Brevetto Comunitario compiuto
dagli Stati Membri della Comunità Europea ha portato nel 1975 alla firma
della Convenzione di Lussemburgo sul Brevetto Comunitario, Convenzione
modificata poi da un accordo concluso a Lussemburgo il 15 dicembre 1989 in
tema di Brevetti Comunitari, il quale comportava tra l’altro un protocollo
sulla composizione delle controversie riguardanti contraffazioni e validità
dei brevetti comunitari che è stato poi recepito dal London Agreement del
2000 .
Guardando all’istituto dal di fuori, si sottolinea che il
Brevetto Comunitario nell’intenzione degli stati UE deve presentare un
carattere unitario ed autonomo e scaturire da un corpus comunitario di
diritto brevettuale. Si vuole inoltre che esso, come recita il commento
della Commissione Europea, “abbia un prezzo accessibile, un regime
linguistico semplificato e che coesista con gli attuali sistemi brevettuali”.
“Carattere unitario” sta a significare che il Brevetto Comunitario produrrà
gli stessi effetti sul territorio dell’intera Comunità, e potrà essere
concesso, trasferito, dichiarato nullo, decadere o estinguersi unicamente
per la totalità di tale territorio.
In sostanza il Brevetto Comunitario non sarà più un fascio
di brevetti nazionali, come oggi è il Brevetto Europeo, che, una volta
concesso soggiace alle leggi dei singoli paesi nei quali viene esteso, ma un
brevetto valido secondo lo stesso regolamento in maniera unitaria negli
Stati che hanno ratificato l’Accordo - al giorno d’oggi: Croazia. Danimarca,
Lettonia, Olanda, Francia, Liechtenstein, Slovenia, Germania, Lussemburgo,
Svizzera, Islanda, Principato di Monaco, Regno Unito.
Il Brevetto Comunitario in questa ottica dovrà ovviamente possedere un
“carattere autonomo”, cioè essere disciplinato unicamente dalle disposizioni
del proprio regolamento e dai principi generali del Diritto Comunitario. Il
sistema del brevetto comunitario coesisterà comunque con gli attuali sistemi
brevettuali nazionali e con i brevetti europei. Gli inventori conserveranno
la facoltà di scegliere il sistema brevettuale che ritengano più conveniente.
È anche previsto che prima della concessione una domanda di brevetto europeo
che designi tutti gli Stati membri della Comunità possa venir trasformata in
qualsiasi momento in una domanda di brevetto comunitario che designi tutto
il territorio della Comunità in quanto tale.
Tornando alla scelta italiana commentata all’inizio,
tralasciando i confronti con le scelte degli altri paesi, per giudicare
positivamente o negativamente il sistema del Brevetto Comunitario occorre
capire se in effetti esso porterà i benefici sperati alle industrie europee.
Premesso che il costo della procedura di protezione brevettuale non è il
parametro più importante per misurare la capacità e il tasso di innovazione
delle imprese (il costo inferiore del brevetto non potrà supplire alla
mancanza di investimenti in ricerca che, soprattutto in Italia, è causa del
basso tasso di innovazione), una riduzione sostanziale delle spese di
registrazione potrà sicuramente favorire le imprese - soprattutto le PMI -
consentendo loro, per esempio, di destinare i fondi risparmiati per le
procedure di registrazione alla tutela giudiziale dei brevetti.
Benché i titolari italiani di Brevetti Europei possano
beneficiare comunque dei vantaggi economici del nuovo regime nel momento
della convalida dei propri brevetti europei negli Stati che vi hanno aderito,
la mancata ratifica da parte dell’Italia del London Agreement sembra
comunque doversi giudicare negativamente: l’esigenza per le imprese di
confrontarsi in un mercato comune e sulla base di un’unica normativa europea
è sempre stata forte (basti pensare all’enorme successo dell’altro grande
istituto di diritto industriale comunitario, il marchio, che ha quasi
soppiantato le domande nazionali) ed in costante aumento.
A tale fine la principali associazioni imprenditoriali del paese hanno
chiesto al Governo italiano che venga riconsiderata la posizione dell’Italia
anche alla luce del recente pronunciamento da parte del Governo stesso a
favore di una lingua unica - l’inglese - per il sistema centralizzato di
contenzioso brevettuale.
25-Mag-2008
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