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Fare marketing con il passaparola: appunti di Viral Marketing

di Gianluigi Zarantonello

Certe volte le cose più semplici, se impostate in modo corretto, sono anche le più efficaci.
E' il caso del Buzz Marketing o Viral Marketing, una tecnica che negli ultimi tempi sta vivendo una buona crescita, soprattutto per quanto riguarda gli USA.

In buona sostanza stiamo parlando della sublimazione tecnica del passaparola, pianificato in modo professionale per raggiungere gli obiettivi del brand ma affidato poi al “lavoro” di comuni cittadini che con le loro azioni, anche semplici, riescono ad ottenere risultati notevoli.

I riscontri dei protagonisti del marketing USA, come Seth Godin e Malcolm Gladwell, sono arrivati quasi subito e i giudizi sono molto lusinghieri, visto che la tecnica è efficace ed economica.

Ma come funziona in pratica una campagna di viral marketing?
Basilarmente si coinvolgono alcune persone interessate ad un prodotto e si danno loro dei campioni omaggio o comunque delle occasioni di venire a contatto in modo particolare con il bene.
Una volta nel loro ambiente sociale di riferimento le persone in questione inizieranno a parlare del bene e magari a consigliarlo, a questo punto il passaparola tra amici, parenti e conoscenti, da sempre motore delle mode, verrà dunque innescato.
Progressivamente la conoscenza e l'interesse per un bene cresceranno fino a raggiungere il tipping point di cui parla Gladwell in un suo libro recente, il punto oltre il quale il fenomeno decolla e contagia masse enormi di individui.

Il meccanismo dunque poggia sulla forza degli opinion leaders, persone dotate di carisma che riescono ad influenzare il comportamento e le idee di un gran numero di individui.
Non è certo di oggi la scoperta della loro influenza, Paul Lazarsfeld ne aveva individuato l'importanza parecchi anni orsono (1940-1960) teorizzando, in quel caso per le elezioni americane, il “Two steps flow of communication”, ossia il flusso di comunicazione a due stadi.
In breve Lazarsfeld aveva notato che gli elettori ricevevano informazioni sia direttamente dai media e dai candidati, sia da mediatori (gli opinion leaders) che riportavano, commentando e analizzando, notizie e dati appresi da altri.
Il ruolo di questi mediatori (non semplici trasmettitori ma veri e propri filtri che rielaborano l'informazione) e la loro influenza avevano un peso notevolissimo.

In effetti anche molti lavori di psicologia sociale successivi hanno finito per confermare che l’informazione che arriva da un altro individuo dotato di una qualche forma di prestigio riesce ad influenzare l’interlocutore in modo assolutamente potente, talvolta anche più dei mass media stessi.

Il punto più delicato sta nel convincere le persone a diventare veicoli del contagio (di solito avviene gratis), infatti esse nel dare un consiglio a qualcuno del proprio gruppo di riferimento si giocano in parte nome e attendibilità, perché dunque dovrebbero farlo?
Normalmente è un fatto d'immagine, dunque un ritorno di tipo intangibile legato al rafforzamento della propria leadership in fatto di opinioni e al proprio prestigio sociale nel gruppo.
Questo comporta anche una maggiore attenzione nel svolgere il proprio compito perché più si diventa influenti e più una brutta figura o un suggerimento sbagliato diventano pesanti.
Qualche benefit tangibile poi viene da campioni omaggio e altri piccoli regali/gadget, ma in effetti è l'aspetto immateriale a farla da padrone nella motivazione.

Dato che le sperimentazioni hanno dato esito positivo c’è chi ha iniziato ad applicare questi principi a una precisa strategia, ad esempio la società americana BzzAgent, che detiene un esercito di “apostoli” del brand più o meno stimabile in 100 mila adepti.
Mode? Può essere ma di fatto l'azienda nel suo portafoglio clienti ha già nomi come Coca-Cola, Estée Lauder, Lee Jeans, Kelloggs, Ralph Lauren e altri.
E la Procter&Gamble disporrebbe, secondo Panorama, di 250 mila giovani leader d'opinione che promuovono i suoi tanti prodotti.

Quanto costa tutto ciò in termini economici? Per ora relativamente poco, visto che si tratta di una materia ancora in evoluzione e che i costi per la gestione degli opinion leaders sono pressoché nulli, una campagna tipo con la Bzz Agent viene a costare grossomodo 100mila dollari.

I costi di fatto sono uno degli elementi di forza del viral marketing ma anche i risultati in termini di efficacia non sono da buttare.
Con espedienti di Buzz Marketing Penguin ha venduto tirature record di romanzi di autori sconosciuti, le salsicce Al Fresco hanno raddoppiato le loro vendite, Hasbro e Lego sono riusciti a far diventare popolari dei giochi fra i bambini prima ancora che fossero lanciati sul mercato e la già citata Procter&Gamble ha fatto lo stesso con le Pringles in Italia.

Alla base del successo però ci deve sempre essere un'idea valida per spingere l'opinion leader a farsi carico, di fatto spontaneamente, del suo ruolo di “untore” del brand.
Altrimenti detto: attenzione, non sempre funziona, ci vogliono alcuni presupposti, un bene con degli attributi (tangibili e non) forti e un buon modo per innescare il contagio.

Iniziative come “se porti un amico ti faccio uno sconto” non sono vero viral marketing (ma sales promotion), occorre che le persone siano realmente coinvolte per spingere avanti il prodotto, anche senza niente in cambio.
Ci vogliono individui legati al prodotto da interessi personali e appartenenza sociale, l'oggetto da pubblicizzare deve avere davvero qualcosa di innovativo e altrettanto deve esserlo il modo di presentarlo.

E infine bisogna sapere osare, avendo alle spalle un brand forte, non inteso in senso di notorietà quanto piuttosto a livello di valenze tangibili e intangibili realmente vincenti e distintive.

Dunque il viral marketing è per molti (visti i costi) ma non per tutti.

LINK UTILI E BIBLIOGRAFIA WEB DELL'ARTICOLO

http://www.bzzagent.com/
http://www.permission.com/
http://www.gladwell.com/
http://www.sethgodin.com/
http://www.percheinternet.it/autoformazione/viral-marketing.html
http://www.buzzmarketing.com/
http://www.undicom.it/

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