INAIL e la comunicazione della sicurezza sul
lavoro
Un ente pubblico che fa della comunicazione la leva principale per
raggiungere uno dei suoi obiettivi più importanti: la prevenzione degli
infortuni sul lavoro. Un esempio da imitare
che parte dalla comunicazione interna, come ci spiega Marco Stancati,
Direttore Comunicazione di INAIL.
di Nicolò Occhipinti
Marco Stancati, Direttore
Comunicazione di INAIL |
La sicurezza sul posto di lavoro è un tema riportato fortemente all’attenzione dai media in questi giorni a causa della tragedia della ThyssenKrupp. Ma le aziende e l’opinione pubblica sono realmente sensibili a queste problematiche in periodi non caratterizzati da casi clamorosi come quello di Torino? “La realtà è che sono diminuiti gli infortuni e al contempo è cresciuta la coscienza sociale. Siamo passati dall’Italia ‘mitica’ del primo miracolo economico che pagava un prezzo altissimo in termini di infortuni all’obiettivo del benessere, all’Italia ‘arrancante’ di oggi che dal punto di vista della sicurezza non sta peggio di Francia e Germania.”, afferma Marco Stancati, Direttore Comunicazione di
INAIL, l'Istituto
Nazionale Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro. Quindi, anche i media sono effettivamente più attenti e sensibili al tema della sicurezza sul lavoro?
All’inizio degli anni sessanta, quando “morivano di lavoro” dodici o tredici persone al giorno, si parlava poco di infortuni e prevenzione. Oggi che le vittime sono scese a quattro se ne parla - e meno male! - moltissimo. A questa più matura coscienza collettiva l’INAIL ha contribuito molto con una capillare azione di sensibilizzazione nelle scuole, nei luoghi di lavoro, con contatti costanti con le redazioni dei mass media, con campagne pubbliche, con concorsi a tema, con la realizzazione di una “sala stampa” sul sito istituzionale (www.inail.it) che sta diventando una sorta di agenzia stampa della sicurezza. Nonostante questa crescita di attenzione collettiva al tema, concordo con l’analisi di De Rita,
presidente del Censis, quando dichiara che “la sicurezza non è ancora diventata un valore sociale”. Certo oggi l’opinione pubblica rifiuta che si possa morire di lavoro, ma non persegue con comportamenti coerenti e costanti l’obiettivo sicurezza. Ci indigniamo per le morti atroci di Torino e chiediamo pene esemplari per i responsabili, ma tendiamo a non vedere che tutti noi siamo parte del problema nella quotidianità. In quella quotidianità nella quale, spenti i riflettori sull’ultima tragedia, ci dimentichiamo che il problema della sicurezza è nostro perché siamo tutti o lavoratori o datori di lavoro. Spesso disattenti.
Una sorta di rimozione collettiva del problema infortuni?
Praticamente sì. L’opinione pubblica, aiutata da un sistema d’informazione che tende più alla spettacolarizzazione che all’approfondimento rigoroso, tende a convincersi che il problema degli infortuni è un problema di cattivi padroni e di dipendenti sfruttati, di clandestini che lavorano in nero, di cantieri insicuri o di una agricoltura in mano ai caporali della malavita organizzata. Tutto questo è certamente vero, ma anche parziale. Questa è appunto la parte evidente del problema, ma non è l’intero problema.
Quali sono le iniziative di INAIL volte a far uscire dai luoghi comuni e a promuovere la cultura della prevenzione degli infortuni?
Da diversi anni abbiamo scelto di affiancare alla periodica, e sempre più approfondita, divulgazione dei dati sugli infortuni del lavoro e le malattie professionali una serie di iniziative di sensibilizzazione sul tema della sicurezza in tutti gli ambiti: a casa, a scuola, sulla strada, allo stadio, sul posto di lavoro. Perché la cultura della sicurezza è una sola: non si può essere un datore di lavoro o un lavoratore attento alla sicurezza sul posto di lavoro se prima non si è cittadini attenti alla sicurezza della propria abitazione, della guida, nei comportamenti allo stadio. Le iniziative di sensibilizzazione si sono basate sulla pluralità dei linguaggi: cinema, letteratura, fotografia, satira, teatro, poesia, musica, design e perfino gli ex-voto. Assecondando anche le ultime tendenze della comunicazione “non convenzionale”: quella dei Social Networking e degli User Generated Content, e cioè i contenuti dei messaggi generati da appartenenti allo stesso target che si vuole raggiungere. Tanti linguaggi per un unico scopo: uscire dal luogo comune, autoassolvente, che gli infortuni sul lavoro siano un problema fuori di noi: un problema dei “datori di lavoro e dei lavoratori”. Come se ciascuno di noi non appartenesse a una delle due categorie - o quantomeno aspirasse ad appartenervi - e quindi non fosse inevitabilmente parte del problema. E soprattutto, ed è questo il nostro obiettivo, parte della soluzione.
Quali sono gli strumenti più efficaci che le imprese possono adottare per le attività di prevenzione?
L’informazione-formazione del lavoratore, innanzitutto, sui rischi lavorativi e sui comportamenti corretti. Non soltanto al momento dell’assunzione, ma costante nel tempo. Una formazione che non si traduca nella consegna di una pila di manuali, in un adempimento burocratico da mostrare all’ispettore del lavoro; occorre una reale educazione alla sicurezza sul posto di lavoro. Non limitarsi, inoltre, a consegnare i DPI (Dispositivi di Protezione Individuale) ma pretendere che vengano utilizzati in maniera mirata, senza insopportabili rigidità ma anche senza strumentali tolleranze. E poi i ritmi lavorativi devono essere compatibili con i livelli di attenzione necessari: l’eccesso di ricorso al lavoro straordinario sempre degli stessi dipendenti, anziché provvedere con nuove assunzioni, è una delle condizioni che favorisce gli infortuni. La responsabilità sociale di un impresa si valuta, o dovrebbe valutarsi, anche dalle politiche di gestione delle Risorse Umane.
A proposito: che rapporto c’è tra Responsabilità Sociale d’Impresa e cultura della salute e sicurezza sul lavoro?
Quasi tutti fanno riferimento a Edward Freeman quando si parla di responsabilità sociale e ad un suo saggio del 1984. Per verità ne sentii parlare la prima volta dall'economista
italiano Federico Caffé una quindicina di anni prima più o meno in questi termini: essere socialmente responsabili vuol dire per un’impresa tener conto nelle operazioni di mercato degli interessi e dei valori di tutte le parti coinvolte: i clienti, i dipendenti, i fornitori, gli azionisti e l'ambiente. In questa visione l’investimento sul capitale umano ed ambientale è una prioritaria strategia aziendale che coinvolge ovviamente le condizioni di salute e di sicurezza sul posto di lavoro E’ nella ordinarietà del lavoro quotidiano che va verificata l’etica di un’azienda non nella straordinarietà di Fondazioni create ad hoc. Sono infatti d’accordo con don Luigi Ciotti quando afferma che “l’etica è avvertire costantemente la responsabilità nei riguardi dell’altro. L’etica è sentire la corresponsabilità. Perchè gli altri siamo noi”.
Parliamo della nuovo posizionamento e ruolo di marca di INAIL. Lo scorso novembre avete lanciato due nuove campagne di comunicazione sull’Assicurazione per le casalinghe e i Servizi on-line, ed è stato adottato un nuovo pay-off: “Al lavoro con te” in sostituzione del precedente “In ogni caso”. Qual è il motivo di questo riposizionamento?
Più che un riposizionamento è una naturale evoluzione. “INAIL, in ogni caso” è stato un pay off di grande successo, studiato con la precedente agenzia di riferimento – la Pomilio Blum -, invocato dai nostri utenti anche, e soprattutto, in presenza di situazioni complesse. Una “promessa” certamente forte, rassicurante, ma con un pizzico di autoreferenzialità top down. “INAIL, al lavoro con te” suggerisce un rapporto più paritario, più orizzontale, una presa in carico del lavoratore prima ancora dell’infortunato. E’ il frutto dell’inizio della collaborazione con la nuova agenzia, che da luglio 2007 è la McCann Erickson.
Come sta cambiando l’organizzazione e la gestione di INAIL?
Stiamo disegnando un nuovo modello organizzativo che tiene conto da un lato dell’esigenza di spostare il 15% circa del personale - 1.500 persone circa da attività strumentali ad attività “core business” e dall’altro di qualificare sempre di più l’INAIL come punto forte del Welfare nel settore della Prevenzione e Sicurezza. La gestione complessiva negli ultimi anni ha confermato la storica capacità dell’INAIL di buoni risultati di bilancio. Anche troppo. Un Ente pubblico che non ha fini di lucro che registra avanzi economici annui nell’ordine dei 2 miliardi di euro è un’anomalia. E non lo dico con orgoglio ma con perplessità. Perché quell’avanzo è servito per migliorare i conti del Sistema Paese ma non per migliorare le prestazioni alla nostra utenza. Almeno finora.
Oltre alla direzione generale di Roma, INAIL conta ben 19 direzioni regionali, 122 sedi locali provinciali, 67 sedi locali sub-provinciali e 76 agenzie locali. Una struttura veramente complessa che richiede un notevole sforzo per garantire una diffusione capillare delle informazioni, la creazione di un’identità comune e la partecipazione. Quali leve di comunicazione interna adottate per ottenere questi obiettivi?
Una missione fortemente etica come quella dell’INAIL - Non soltanto assicurazione ma un sistema integrato di tutela del lavoratore e per la competitività delle imprese - certamente aiuta ad identificarsi con l’azienda e sostiene il senso di appartenenza. Usiamo tutte le modalità della comunicazione. Comunicazione calda e comunicazione tecnologica a supporto di un principio base: tutti gli undicimila dipendenti dell’Istituto sono potenziali portavoce dell’Ente e potranno comunicare bene all’esterno soltanto se, prima, avrà funzionato bene la comunicazione interna. Indubbio che in questa funzionale continuità tra comunicazione interna ed esterna un ruolo fondamentale lo gioca la Intranet.
Può precisarci questo ruolo e come la Intranet contribuisce in INAIL alla condivisione della conoscenza?
La Intranet ha cambiato la mappa del potere informativo in azienda e consente di esaltare la ricchezza professionale, progettuale e propositiva della comunità. Posso classificare attualmente la nostra Intranet tra quelle di “knowledge management” ma l’obiettivo è più ambizioso: knowing management. E cioè chiamare tutti gli appartenenti all’organizzazione a partecipare alla costruzione del patrimonio di conoscenze aziendali. E’ uno strumento potentissimo che ci sta lievitando nelle mani e le cui implicazioni non sono facili da metabolizzare rapidamente, all’INAIL come altrove. Ma abbiamo avuto il coraggio di crederci e di farne il principale canale di comunicazione interna affrontando, quotidianamente, gli inevitabili problemi. Quante aziende, e non solo pubbliche, possono dire la stessa cosa?
29-Dic-2007
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