Fast fashion, l’ultima tendenza della moda
“mordi e fuggi”
Brand giovani che erodono quote di mercato
alle grandi marche, in un settore ormai maturo. La loro capacità di innovare
e di introdurre nuovi modelli di business ha generato una rivoluzione nel
settore moda, condizionando anche i protagonisti del lusso.
di
Rosvanna Lattarulo
Zara,
H&M, Mango, Esprit: sono solo alcuni dei brand giovani in ambito moda,
marchi che, nel giro di pochi anni, sono riusciti ad imporsi introducendo
alcune novità sostanziali in un settore ormai maturo. Innovazioni che hanno
costretto i brand più famosi a rivedere i loro modelli di business, con
novità che riguardano principalmente la tempistica e la struttura delle
collezioni, la gestione della supply chain e delle reti di vendita.
Nell’ultimo quinquennio i brand più giovani, detti fast
fashion, sono cresciuti mediamente del 15-20% (fonte: uno studio Bain & Co
condotto per conto di CSC), una crescita superiore a quella registrata nello
stesso periodo dal segmento del lusso (+0,8%) e dall’abbigliamento femminile
(0,1%). Il valore di mercato di questi brand è salito dell’11% e i punti
vendita sono più o meno raddoppiati, con una presenza che si è concentrata
nelle zone più prestigiose delle maggiori città.
I grandi marchi stanno reagendo a questa rapida avanzata e ad una tendenza
ormai diffusa che vede il cliente finale sempre meno propenso ad essere
fedele ad unico marchio o a indossare solo capi firmati. Accade spesso,
infatti, che i consumatori tendano a mescolare i capi di lusso (Armani,
Ferrè, Versace, solo per citare alcuni marchio di alta moda italiana) con
altri di minor valore commerciale (ad esempio una camicia Zara, pantaloni di
H&M, la giacca di Promode o di uno dei tanti marchi del cosiddetto fast
fashion).
«I consumatori del lusso - racconta Claudia D'Arpizio
partner di Bain&Co - mischiano sempre più cheap e chic. Una sorta di
rivoluzione che ha condizionato anche i protagonisti del lusso». Questi
ultimi stanno progressivamente affiancando alle due collezioni istituzionali
primavera/estate, autunno/inverno, altre due precollezioni; altri ne
propongono durante l’anno addirittura quattro collezioni oltre quelle
tradizionali, le collezioni flash.
“Il fast fashion ha prodotto una discontinuità che tutti gli attori del
settore devono affrontare – spiega Andrea Ciccoli, partner di Bain & Co: i
‘premium player’, come Gucci e Diesel, devono definire delle best practice
che non compromettano il loro posizionamento esclusivo, i ‘branded player’,
come Benetton e Nike, devono rivedere la gestione degli assortimenti e della
supply chain, e così via”.
Per accrescere la loro visibilità a livello mondiale gli operatori fast
fashion stanno inaugurando nuovi punti vendita nel mondo, puntando sulle
zone esclusive delle grandi città metropolitane (Milano, Londra, Tokyo, New
York), un tempo location preferite dalle maison italiane più blasonate.
«I punti vendita - spiega in proposito la D´Arpizio - vivono, creano
un’esperienza. La gente torna tante volte perché trova sempre qualcosa di
nuovo».
Josè Maria Castellano Rìos, ceo di Inditex la capogruppo di
Lacorugna che controlla diversi marchi tra cui Zara, racconta quale era
l’idea di business di Zara. «L’idea originale era molto semplice. Collegare
la domanda del consumatore alla produzione, e collegare la produzione alla
distribuzione. Ancora oggi, questa è l’idea che perseguiamo ogni giorno».
Tutti gli operatori del fast fashion tendono ad avere un time-to-market
estremamente ridotto: una parte più o meno consistente della collezione (dal
25% al 40%) viene disegnata e consegnata nei negozi nel giro di poche
settimane (mediamente da 4 a 6). Si travolge così il modello tradizionale di
business, un’operazione resa possibile grazie alle novità introdotte in aree
aziendali strategiche: logistica, distribuzione, rete vendita ecc.
Per mantenere una tempistica più serrata che in passato, Zara ha una
struttura integrata verticalmente (controlla persino le tessiture e dispone
di una sua flotta di aerei per consegnare le sei-sette collezioni che sforna
ogni anno); H&M produce nel Far East demandando a terzi le fasi della
distribuzione, mentre Esprit (joint venture tedesco-cinese), altra etichetta
"fast", produce a getto continuo, presentando una collezione nuova ogni
mese.
Dopo lo sbarco nel Belpaese degli spagnoli di Zara, è stata
la volta degli svedesi di H&M e dell’etichetta Esprit a, Mango (spagnolo),
Top Shop (inglese), Forever 21 (Usa) e Best Seller (Danimarca). A tenere
alti i colori italiani ci pensano Motivi (gruppo Miroglio) e la stilista
Patrizia Pepe, che da etichetta della moda pronta per conto terzi si è
trasformata qualche anno fa in un marchio vero e proprio, posizionandosi in
una fascia alta del mercato. Una strategia di riposizionamento sul mercato è
stata attuata anche da Mango che nel 2006 ha scelto come testimonial Claudia
Shiffer, volto molto noto delle passerelle mondiali e ha creato una nuova
linea, "Mng", molto sofisticata.
Ma se è vero che i marchi del fast fashion hanno
rivoluzionato le regole del mondo modaiolo, costringendo quelli del lusso ad
adeguarsi, è altrettanto vero che le maison storiche che hanno portato il
nome dell’Italia in tutto il mondo mantengono un prestigio ancora
inattaccabile. «I marchi del lusso - spiega Claudia D'Arpizio - definiscono
i trend. Creano le tendenze. I fast fashion retailer li seguono». Ai big del
mercato non resta che rivedere la loro catena produttiva e distributiva,
senza perdere di vista la creatività e l’autorevolezza conquistata in
decenni di onorata fama.
10-Nov-2007
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