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Community Management: le organizzazioni aziendali sono pronte?

Nel libro di Emanuele Scotti e Rosario Sica il cambiamento che il Web 2.0 sta portando ai mercati e alle organizzazioni. Il networking, la costituzione di comunità di apprendimento, nuove forme di motivazione di cui il management, oggi più che mai, dovrà iniziare ad occuparsi. L'intervista di Eccellere agli autori.

di Enrico Ratto

Velocità, collaborazione, apprendimento. Queste sembrano essere oggi le parole di cui il management non può fare a meno se opera all'interno di una organizzazione che desideri crescere e competere con gli strumenti offerti dal Web 2.0. Una dimensione in cui il manager lavora e arricchisce la propria esperienza, professionale e personale, per raggiungere obiettivi che "in solitaria" non ha più i mezzi per raggiungere. Ma quali sono gli strumenti più idonei, e dove una community - tra le molte proposte - ha maggiori possibilità di successo? Eccellere ha intervistato Emanuele Scotti e Rosario Sica, esperti di tecnologie innovative e autori del libro Community Management (Apogeo Editore).

Dott. Scotti e dott. Sica, secondo voi in quale settore dell'organizzazione aziendale è oggi più efficace la costruzione di una community?
Intanto l’esperienza ci insegna che ci sono differenti tipologie di community. Nelle reti di vendita o di post vendita troviamo spesso delle comunità di pratica, cioè dei gruppi professionali omogenei che condividono una passione per un mestiere e che si cercano per farlo meglio. Nelle corporate university è tipico il caso delle learning community, gruppi di professional che condividono un percorso di apprendimento e si aiutano in questo; è l’esperienza che facciamo nei corsi quando ci accorgiamo che stiamo imparando più dai colleghi che dal docente. Nei processi di delivery o a volte nel gruppo di dirigenti aziendali riscontriamo delle forme che possiamo chiamare di social networking, di interconnessione dinamica che si attiva su specifici problemi.
Le finalità dei progetti di Community management sono le più diverse, ma tutte hanno sotto traccia il tema dell’apprendimento organizzativo e della gestione dei saperi professionali. Interveniamo in una rete di vendita distribuita sul territorio nazionale per creare una squadra, favorire e velocizzare la circolazione delle informazioni sul mercato e sui prodotti e scopriamo che con l’andare del tempo nell’ambiente di community le persone si scambiano le referenze di vendita, verificano i comportamenti della concorrenza a livello locale e nazionale, creano un glossario comune, consultano il Blog del direttore commerciale.

Voi pensate che le aziende italiane facciano già un buon ricorso alla community? E qual è il processo di intervento? 
Se leggiamo nei progetti di Community Management una nuova era del knowledge management sicuramente ci sono aziende importanti che stanno lavorando in questa direzione, cito fra tutti BTicino e Indesit.
L’intervento inizia facendo una fotografia dei network sociali esistenti - delle mappe sociali che rappresentano gli scambi e i livelli di fiducia reciproca - per capire i reali flussi comunicativi, le posizioni dei professional e dei capi nel contesto sociale in cui operano.
Questo approccio mette in discussione alcune pratiche consolidate nella gestione delle risorse umane e dei saperi aziendali nonché nell’applicazione delle tecnologie a questi processi.

In una comunità web il manager si trasforma spesso da "uomo d'azienda" a "uomo tra gli altri", principalmente perchè vengono meno molte gerarchie nel dialogo e nel confronto con gli altri utenti. Quali conseguenze ha questo dato nella diffusione della community?
L’utilizzo dell’e-learning, la definizione e la valutazione delle competenze, il knowledge management, la gestione delle corporate university: tutto questo dovrà fare i conti con il tema delle community aziendali, dell’organizzazione informale e più in generale del paradigma del Web 2.0 portato all’interno delle imprese.  Questi sistemi già oggi devono contrastare il rischio di creare delle isole separate sempre più lontane dai bisogni di chi lavora. Le tecnologie di cui stiamo parlando (Web 2.0) abilitano le persone e i gruppi a esplicitare e a condividere la conoscenza, facendo un post in un forum tra colleghi, archiviando una risorsa informativa ritenuta importante e mettendola a disposizione dei colleghi, a dare un parere in una survey, a caricare fotografie e materiali utili per la professione… Il baricentro si sposta: dalla centralità della funzione aziendale che dirama sui dipendenti procedure e contenuti alla centralità delle persone e del loro contributo. Se le organizzazioni riusciranno a valorizzare il grande patrimonio di passione e di conoscenza che c’è al loro interno avranno raddoppiato la loro competitività e la loro robustezza. E credo che quando i Millennials – i ragazzi che stanno crescendo tra Messenger, Skype, You Tube, Facebook, Delicious con una cultura del tutto nuova del networking e della cooperazione – si affacceranno sul mondo del lavoro questi processi potranno solo avere un’accelerazione incredibile.

All'interno di un'azienda, oggi, è più frequente assistere alla creazione di aggregazioni e community spontanee, o sono comunque decisioni "top - down" prese dal management, anche se poi sviluppate in maniera orizzontale tra dipendenti, collaboratori e management stesso?

In ogni organizzazione c’è una differenza più o meno marcata tra la struttura organizzativa e il funzionamento reale, tra le procedure definite a monte e l’esperienza concreta, tra come le cose sono state disegnate e come vengono effettivamente fatte. Possiamo dire tra l’organizzazione formale (definita a priori, fissata nella manualistica aziendale e negli organigrammi) e l’organizzazione informale. L’organizzazione informale è quella della macchinetta del caffè, del sistema di relazioni di ognuno utilizzato per trovare ogni giorno la soluzione che serve; è lo spazio in cui le persone devono tradurre in risultato la strategia e le politiche aziendali; uno spazio che può essere creativo e in cui le persone devono ogni volta inventare il risultato.
Questa parte dell’organizzazione che chiamiamo informale esiste indipendentemente dalla volontà del management e dei capi; le persone si cercano, si scambiano pareri e consigli, codificano prassi e valori sulle esperienze concrete. Il fatto importante è che questa dimensione informale è sempre più implicata nel risultato aziendale. Questo non tanto per una carenza dell’organizzazione formale quanto per le condizioni in cui oggi siamo chiamati a lavorare, condizioni sempre più caratterizzate da velocità, turbolenza, overload di informazione, liquidità, cambiamento continuo. Questi fattori spingono le persone a interpretare lo spartito in modo creativo e a interconnettersi in reti sociali animate da passione, fiducia reciproca (chiedo un parere alle persone di cui mi fido), rapidità, riconfigurazione continua. E queste community sono un patrimonio per l’organizzazione perché – mentre fanno funzionare le cose – capitalizzano sapere, danno robustezza, creano appartenenza.
La cosa interessante è che, soprattutto per le aree aziendali più esposte all’esterno, il modello delle community è in qualche modo imposto dal mercato, che si sta trasformando in una grande community, o in tante conversazioni tra clienti. L’evoluzione delle tecnologie ha fortemente supportato e accelerato questo processo. Il Web, e soprattutto quella evoluzione che ormai va sotto il cappello di Web 2.0, permette alle persone di generare e condividere contenuti e relazioni con modalità semplicemente impensabili fuori dal mondo digitale. Il fatto di dover interagire con delle community e non più semplicemente con dei target impone un forte cambiamento sia delle politiche di marketing sia della modalità di organizzazione delle aree aziendali esposte al mercato: non posso interagire bene con le community dei clienti se non sono anche io strutturato per community.
Torniamo allora verso l’interno dell’azienda. Come ho detto prima, i network sociali, le comunità di pratica, le community esistono e possono esistere senza che l’organizzazione lo sappia o lo abbia pianificato. L’organizzazione può scegliere di trascurare la dimensione informale o di farla emergere e di supportarla.

Quali sono i fattori di successo di una community?
Spesso è quello che si sperimenta con successo è un percorso graduale: da un modello che prevede un importante contributo redazionale e di animazione verso un modello più autonomo e basato sul contributo dei partecipanti.
L’organizzazione e il management devono essere accompagnati; non bisogna commettere l’errore di considerare la tecnologia - pur molto importante - l’elemento determinante per il successo dell’iniziativa. La tecnologia abilita dei processi; i processi hanno bisogno di strutturarsi e di funzionare autonomamente. Aprire un forum non è sufficiente ad attivare una comunità di pratica.

Community Management
Processi informali, social networking e tecnologie Web 2.0 per coltivare la conoscenza nelle organizzazioni
di
Rosario Sica, Emanuele Scotti
pp. 168
Apogeo Editore
Anno 2008

ISBN 9788850326457
 

7-11-2008


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