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Quel che resta della pubblicità
Siccome non è un thriller, svelo subito il finale: della pubblicità resta parecchio e anche il marketing non sta poi tanto male. Semplicemente, e inevitabilmente, si trasformano.
di
Marco Stancati
Pubblicità morta? Parliamone!
L’autrice analizza il cambiamento in atto del fenomeno pubblicitario che, per sua natura, è legato indissolubilmente a qualsiasi trasformazione di contesto. E lo fa in maniera puntualmente argomentata rifuggendo dalle semplificazioni che annunciano la morte della pubblicità, del marketing e la nascita del prosumer che riuscirebbe a condizionare le politiche aziendali e la comunicazione di prodotto. Paola Panarese registra tutto, ma tutto sottopone a verifica come dovrebbe fare, sempre, un ricercatore. E conduce per mano il lettore nell’analisi, con uno stile conversativo coerente con i tempi, invitandolo a non cadere nel diffuso paradosso di ragionare per slogan sulla madre di tutti gli slogan: la pubblicità. E sulle sue sorti nel futuro prossimo venturo.
Tanti cambiamenti determinano il tempo “post-pubblicitario”
L’avevano detto, già alla fine degli anni novanta, Rick Levine & soci in quel documento visionario e anticipatorio che è il Cluetrain Manifesto: i mercati sfumano sempre di più le loro caratteristiche fisiche per diventare luoghi di conversazioni e spazi semiotici. Inevitabile che questo metta in discussione l’efficacia della pubblicità come comunicazione unidirezionale, costruita intorno ai format televisivi ripetitivi e ossessivi e che comunque non lasceranno il campo così repentinamente.
E’ vero che il nuovo consumatore si sta attrezzando per non dipendere dalla pubblicità. Ma è un processo in corso, e non già uno status acquisito, come rileva Mario Morcellini nella prefazione (da leggere): “Il cambiamento dei media, ma anche quello degli attori in campo, rende l’advertising tradizionale, quella martellante a colpi di spot, sempre meno efficace…Il pubblico, aiutato dalla tecnologia digitale, sviluppa anticorpi che gli consentono di ridurre la sua esposizione alla persuasione pubblicitaria.”
I nativi digitali, e i sociologi analogici con il complesso di non esserlo (digitali), celebrano il “prosumer”, consumatore non più passivo ma proattivo, come il nuovo eroe di un mercato nel quale può orientare o addirittura determinare le scelte delle aziende produttrici. Descrivono un’indubbia tendenza in atto come una situazione generalizzata, diffusa, definitivamente acquisita. Ma esorcizzano i dati del reale: la televisione continua a raccogliere ancora oggi oltre il 50% dell’investimento pubblicitario complessivo. Spot e telepromozioni, pur manifestando segnali di stanchezza, continuano a essere i format pubblicitari più richiesti dagli inserzionisti, gli acquisti compulsivi hanno trovato un qualche freno soltanto negli effetti della crisi economica, tra le righe dei blog e dei Social Network è possibile leggere, senza difficoltà, gli effetti indotti da una pubblicità negata e respinta nelle dichiarazioni ma subita nei comportamenti quotidiani.
La natura della pubblicità
L’autrice dedica l’ultimo capitolo del libro a confrontare le sue conclusioni con i punti di vista di altri addetti ai lavori (direttori creativi, filosofi del linguaggio, top manager di società di comunicazione, giornalisti specializzati, saggisti). Muovendosi disciplinatamente tra opinioni non sempre convergenti (e, qualche volta, anche poco originali per non dire assolutamente banali), riesce a evidenziare alcune consapevolezze diffuse che riassumo, con qualche approssimazione:
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nell’ultimo decennio si è accelerato il processo evolutivo. Cambiano: gli assetti dei mercati, i Paesi protagonisti degli scenari socio-economici, le emittenti e i committenti della pubblicità, il ruolo del pubblico, i mezzi di comunicazione e, soprattutto, il loro uso
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Il cambiamento della pubblicità si rileva nelle scelte di approccio, con sperimentazioni tecniche e linguistiche, e in alcuni canali di contatto (semi)nuovi
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per quanto riguarda Internet (o, come preferisce Livraghi, “l’internet”) tutti sembrano convergere su un’opinione del medesimo Livraghi: “Abbiamo appena cominciato a capire cosa sia l’internet e quale sia il suo potenziale…La rete non è fatta di macchine, connessioni e protocolli. È fatta di persone. E ciò che conta non sono le tecnologie, ma i contenuti e i rapporti umani”
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La novità delle nuove tecnologie quindi non è nel mezzo, né nei formati generati, ma nell’impatto sugli individui che le utilizzano, quei nuovi consumatori il cui potere di influenzare il modo di fare pubblicità è valutato in maniera spesso diversa dagli intervistati
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c’è un maggior equilibrio comunicativo, “sebbene la simmetria della relazione tra emittente e destinatario sia ancora una prospettiva più auspicata che pienamente dispiegata” come chiosa l’autrice
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il destinatario non è più soltanto il consumatore tradizionale e, più o meno inconsapevolmente, ricettivo ma “un ipotetico interlocutore coinvolto, del quale si cerca di stimolare la collaborazione, la decodifica, la partecipazione e il ricordo”
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questo destinatario non è più membro di un pubblico indifferenziato o differenziato soltanto a livello di segmento (con buona pace della grande mappa di Eurisko), ma “ è parte di un insieme d’individui distinti con cui la marca o il prodotto dovrebbe interagire a livello personale, almeno in teoria”
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la pubblicità è ancora, in gran parte, una forma di comunicazione di massa (come ammettono con qualche ritrosia e distinguo gli intervistati), anche se “le nuove forme d’interazione attivate dal web contribuiscono a spostare la pubblicità dalle masse agli individui”
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ibridazione e crossmedialità sono le parole chiave che gli esperti, quelli ispirati dal nuovo che avanza, ripetono come un mantra; sull’altra riva i fans dell’insight “potente detonatore dell’immaginario” propongono la narrazione, la semplicità e il recupero dei linguaggi della vita
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e la pubblicità italiana? Gli intervistati ne salvano ben poca. Stereotipata (su modelli erotico-sessuali), ripetitiva, stupida, piatta e perfino putrefatta. Ovviamente trattandosi di addetti ai lavori sono esclusi, si sa, i presenti che individuano nella stupidità del sistema (leggi delle aziende inserzioniste invadenti e prevaricanti) i responsabili del basso livello qualitativo. Ma guarda che novità: sono sempre gli altri i colpevoli! Novità che, con più discrezione di questa mia troppo esplicita ironia, l’autrice non manca di rilevare.
La struttura dell’opera
Il valore aggiunto del testo della Panarese – ribadisco - sta proprio nella capacità di leggere rigorosamente il cambiamento proponendo riflessioni che non si lasciano influenzare da semplificazioni, luoghi comuni e ricorrenti annunci funebri (o quantomeno bollettini medici al capezzale della pubblicità). L’organicità della struttura è quindi funzionale a quest’obiettivo. Il libro si apre con un capitolo di panoramica sul contesto (con un’accorta titolazione dei paragrafi), prosegue nel secondo con l’analisi della Morte annunciata”(anche qui un bel mix di titoli incisivi e ironici: “Cassandre e profeti di sciagure”, “Il clic uccide il clip?”, “Il suicidio per stupidità”…). Gioca funzionalmente con il linguaggio, figure retoriche e stereotipi nel terzo capitolo (homo oeconomicus, homo consumens, consumAttori o scarafaggi?) dall’evocativo titolo Dal consumo liquido alla liquidazione del consumo; nel quale risulta particolarmente interessante la parte dedicata ai movimenti anti pubblicitari come Adbusters Media Foundation e i Casseurs de Pub, puntualmente colti anche nelle loro contraddizioni. Nel quarto, (R)evolution, offre una panoramica delle novità in tema di linguaggi, canali e formati con un’avvertenza: anche ambient, viral e guerrilla, che certamente si distinguono dall’advertising tradizionale per la non convenzionalità e il forte livello d’interattività, non riescono a superare tutti i limiti della pubblicità tradizionale. E sono anch’essi linguaggi e approcci soggetti a logoramento da standardizzazione (sintomatico il fatto che usiamo espressioni come viral marketing classico). Dell’ultimo capitolo (punti di vista) ho già detto, e arbitrariamente, nel punto precedente.
Ben scelta, e funzionalmente esemplificativa delle possibili forme dell’icona, anche in combinazione con la metafora (metafore iconiche, iconismo verbale, verbalismo iconico, storia iconica ecc.), la selezione d’immagini, anche se la relativa qualità di stampa è, purtroppo, davvero bassa. E questa considerazione si ricollega al punto successivo.
Editori distratti
Mi capita tanto spesso, quanto invano per verità, di invitare gli editori a una maggiore cura nel confezionamento del (prezioso) oggetto libro. In tempo di e-book e di “minaccia del digitale”, chi decide di optare per la versione cartacea ha diritto di maneggiare un prodotto completo nei contenuti e coerente nella veste grafica e tipografica. Fausto Lupetti, che ho avuto modo di conoscere personalmente di recente (persona simpatica e appassionata), ha indubbiamente il merito di seguire i temi della Comunicazione e del Marketing con continuità e puntualità. Ma i suoi prodotti hanno livelli qualitativi discontinui; il che vuol dire che Fausto, a volte, si distrae sul controllo di qualità. Questo bel testo della Panarese avrebbe meritato una copertina meno sbiadita, un lettering più incisivo, la presenza di un “ indice dei nomi” data la quantità di note e citazioni. Inoltre i refusi sono fastidiosi, ma nell’indice (addirittura!) sono insopportabili. Della (bassa) qualità delle immagini ho detto prima; per di più sono tutte accorpate al centro del libro per una scelta editoriale pauperistica e antipatica par il lettore, non giustificabile neanche in periodo di crisi. Buona invece la gabbia grafica con margini confortanti per la lettura; robusta la rilegatura che resiste alle ripetute consultazioni che il libro merita. Almeno questo!
Quel che resta della pubblicità
La comunicazione di marketing nell'epoca post-spot
di Paola Panarese
pp. 333
Editore Fausto Lupetti
Anno 2011
ISBN 978-8895962535
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4-7-2011
Contenuti concessi sotto Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale 3.0 Unported
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